Ancor prima di entrare nell’analisi dei contenuti, credo sia opportuno evidenziare che l’art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011 interviene, dal punto di vista formale e sostanziale, su buona parte delle materie abrogate con il referendum del 12-13 giugno 2011.
Si fa in particolare riferimento al primo quesito referendario quello avente ad oggetto i modelli di gestione ed affidamento dei servizi pubblici locali. In quelle date, va ricordato, che ventisette milioni di persone non si sono espresse unicamente contro la privatizzazione dell’acqua, ma, più in generale, contro modelli di gestione dei servizi pubblici locali orientati a logiche forzate di dismissione in piena attuazione del refrain neo-liberista.
Un’ampia maggioranza di cittadini, dunque, che si è espressa decisamente contro la cultura monodimensionale del monismo statuale, fondata sul concetto delle privatizzazioni “forzate”, e su norme lesive delle competenze funzionali di regioni ed enti locali è stata mortificata.
In merito all’art. 4 del decreto legge n. 138 del 13 agosto 2011, rubricato “Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa europea” credo sia opportuno, al di là della formale – e rassicurante - enunciazione, soffermarci ed analizzarne i relativi contenuti, in particolare quelli che sembrano riproporre le norme abrogate in via referendaria.
Innanzitutto, occorre ricordare che soltanto pochi mesi fa, esattamente il 12 gennaio 2011, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 24 del 2011 , nell’accogliere la proposta referendaria, tesa all’abrogazione dell’art. 23 bis della l. n. 166 del 2009, fissava tre punti decisamente innovativi, che hanno contribuito ad aprire – quand’anche a rafforzare - una riflessione più ampia sul diritto pubblico europeo dell’economia, sul rapporto pubblico-privato, sul tema dei beni comuni, e non di meno, sul ruolo degli enti locali nella gestione dei servizi pubblici locali.