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All’indomani delle elezioni politiche svoltesi il 24 e 25 febbraio 2013, un’opinione diffusa tra gli addetti ai lavori considerava la riforma della legge elettorale n. 270 del 2005 la priorità assoluta dell’agenda costituzionale italiana; e ciò nel presupposto che l’impasse istituzionale venutosi a creare dopo le elezioni stesse e, in particolare, la difficoltà di formare una maggioranza di governo in grado di ottenere la fiducia delle Camere, fosse da addebitare proprio alle disfunzioni e ai fattori di criticità della legge elettorale, meglio nota con il poco elegante epiteto di «Porcellum».
Dal punto di vista politico, l’urgenza di procedere sollecitamente ad una riforma del c.d. Porcellum era resa evidente dalla natura «eccezionale» (se non addirittura «a termine») dell’esecutivo: un “governo del Presidente” o “di servizio” ovvero una sorta di grosse koalition, formata dalla convergenza di due partiti programmaticamente antagonisti, ciascuno dei quali attraversato da non secondarie problematiche interne; cosicché, nell’ipotesi di una crisi di governo derivante dal venir meno degli equilibri di maggioranza e tale da costringere il Capo dello Stato, in assenza di altre alternative politiche, ad uno scioglimento anticipato delle Camere, si paventava da varie parti il rischio che un nuovo test elettorale, qualora fosse ancora disciplinato dalla normativa vigente, avrebbe potuto condurre, per la seconda volta in un breve lasso di tempo, ad un altro risultato elettorale di difficile decifrazione politica, con tutte le possibili conseguenze negative per la formazione di una maggioranza di governo o, addirittura, per lo stesso assetto democratico.