L’effettiva natura dell’immunità riconosciuta ai parlamentari, in base al quale essi non possono essere chiamati a rispondere per i voti e le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, costituisce già da tempo oggetto di un vivace dibattito, sia in dottrina che in giurisprudenza, anche in considerazione delle rilevanti conseguenze pratiche che derivano dall’inquadramento dogmatico dell’istituto. Infatti, dalla soluzione di tale vexata quaestio derivano numerosi effetti, come quelli sulla rilevanza dell’errore e sull’eventuale risarcimento del danno. L’effetto probabilmente più rilevante si registra comunque proprio nell’ambito della responsabilità dell’eventuale concorrente del reato o dell’imputato di reato connesso, dato che, a seconda della natura dell’immunità parlamentare, discendono soluzioni eterogenee.
Quanto alla natura giuridica di tali prerogative, variegato è il panorama delle posizioni prospettate nel dibattito interpretativo.
La dottrina più risalente configurava le immunità parlamentari come eccezioni all’obbligatorietà della legge penale sancito dall’art. 3 c.p. nei confronti di coloro che si trovano nel territorio dello Stato, attribuendo ai soggetti immuni la qualità di “legibus soluti”, in quanto esonerati dall’obbligo di osservare la legge penale.
Ad oggi, tale orientamento suscita però rilevanti perplessità, perchè finisce con il risultare eccessivamente assolutistico e superato dall’attuale concezione normativa, nella logica di escludere o comunque limitare quanto più possibile tali tipi di “eccezioni” ad personam dell’efficacia della legge penale.