Il recente avvio, da parte della presidenza Karzai, di negoziati coi Talebani , è uno sviluppo, nella complessa questione afghana, riconducibile alla ricerca di una “exit strategy” da parte della coalizione a guida NATO (ISAF ) e, segnatamente, del suo maggiore azionista, gli USA. A prima vista, quella di Karzai appare, infatti, come una scelta obbligata di fronte al conto alla rovescia che, secondo quanto concordato al vertice NATO di Lisbona del 20 novembre 2010, porterà le forze ISAF fuori dal teatro afghano entro la fine del 2014 e consegnerà progressivamente al governo di Kabul la piena responsabilità per la sicurezza interna . Diventando sempre più evidente, a quasi dieci anni dall’inizio dell’intervento internazionale, che il nemico “asimmetrico” non può essere debellato coi soli mezzi militari, allora, nella prospettiva del venir meno di tali mezzi, al presidente Karzai non sarebbe rimasta altra opzione che reintegrarlo – attraverso il negoziato appunto – nell’assetto statuale vigente. Si tratterebbe di un rovesciamento radicale, oggi apertamente fatto proprio anche dall’amministrazione democratica USA , dell’impostazione ideologica che aveva ispirato l’impegno militare in Afghanistan da parte della precedente amministrazione repubblicana: non si scende a patti col nemico, che va piuttosto combattuto fino alla completa neutralizzazione . Pressata da una strisciante crisi economica (ivi inclusi i suoi riverberi sul bilancio federale) e, soprattutto, dall’incognita elettorale del 2012, l’amministrazione Obama rappresenta, a ben vedere, il vero “sponsor” delle trattative coi Talebani, necessarie per evitare che, una volta completato il ritiro delle truppe, il Paese cada nel caos di una nuova guerra civile. Un evento, questo, che richiederebbe un nuovo intervento esterno per scongiurare l’imbarazzo di una verosimile reconquista talebana .