La Costituzione non prevede un espresso divieto di rielezione del Presidente della Repubblica, ma la rinnovazione della carica appare per più versi politicamente inopportuna. È infatti consigliabile evitare che l’organo personale al quale la Costituzione assicura il mandato più lungo possa detenere una quota tanto rilevante di poteri – di influenza, mediazione, regolazione – per un periodo approssimativamente corrispondente a tre legislature.
Inoltre va considerato che le regole procedurali dell’investitura presidenziale sono accuratamente rivolte ad evitare l’instaurazione di un rapporto politico fra Presidente e Parlamento, a scongiurare un «troppo accentuato assorbimento di legittimazione maggioritaria» da parte del capo dello Stato, affinché il custode imparziale di tutti non sia percepito come l’uomo di una sola parte. E questa aspettativa di neutralità potrebbe essere pregiudicata dalla possibilità, per il Presidente, di essere nuovamente eletto. Specie nell’ultimo scorcio del suo mandato, questi, pur di “guadagnarsi” la rielezione, potrebbe infatti mostrarsi più sensibile a condizionamenti e pressioni politiche partigiane e meno intransigente nel difendere la Costituzione anche contro il Governo e le forze politiche.
Queste condivisibili esigenze di equilibrio nei rapporti fra poteri hanno concorso a far consolidare, nella prassi repubblicana, una norma consuetudinaria secondo cui la rinnovazione del mandato, seppure non vietata, doveva ritenersi comunque inopportuna. Una consuetudine significativa che sarebbe saggio non infrangere, come disse il Presidente Ciampi nel manifestare la propria indisponibilità ad essere rieletto al Quirinale .