1.- Non sempre l'ingegno è pari all'impegno. Ma le superficiali e scomposte reazioni, cui la stampa ha dato largo spazio, alla sentenza con la quale la Corte di Cassazione (Sezione III Penale, sent. n. 4377, 20 gennaio 2012) ha stabilito che «l’unica interpretazione compatibile coi principi fissati dalla sentenza n. 265 del 2010 [della Corte Costituzionale] è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia carceraria anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all’art. 609-octies c.p. [violenza sessuale di gruppo]» hanno avuto il merito di richiamare l'attenzione su una pronuncia che - al di là della questione trattata - segna una svolta nei rapporti tra giurisdizione ordinaria (e giurisdizioni speciali) e giurisdizione costituzionale.
2.- Una svolta che si inscrive in una storia ormai risalente. Il principio disciplinatore dei rapporti tra giudici e Corte - la "non manifesta infondatezza" della questione - prescriveva, nel suo significato originario, che qualora il giudice avesse un minimamente serio dubbio sulla incostituzionalità di una norma "dovesse" sollevare la questione davanti alla Corte. La non manifesta infondatezza non prescriveva, cioè, che il giudice "potesse" sollevare la questione solo quando la questione apparisse non platealmente vacua e cervellotica; ma che il giudice "dovesse" sollevare la questione tutte le volte che, a fronte di un dubbio sulla incostituzionalità di norma, si convincesse che, per scacciare quel dubbio, fosse necessario un minimo di seria argomentazione.
La distinzione tra giudici e custodi della costituzione era, così, fissata in modo netto, attraverso un divieto: ai giudici è precluso argomentare intorno alla incostituzionalità di una norma (se non nel minimo necessario per dimostrare che i dubbi di incostituzionalità non sono farneticazioni). Una specifica attività intellettuale, come suonare il violino o dipingere ritratti, era semplicemente vietata.