1. Riformare il (più volte) riformato: come cambia l’Università dall’inizio della XVI legislatura, all’approvazione della “legge Gelmini”
Nell’autunno del 2008, sin dalle prime battute della nuova legislatura, in Italia è stato chiaro che, con il cambio di governo, si sarebbe messo mano – ancora una volta – al sistema dell’istruzione e della ricerca. Non a caso, il primo messaggio “politico” mandato al IV governo Berlusconi dagli organi di vertice del sistema universitario è stato per sollecitare una moratoria delle riforme. Scuola e Università, che permangono luoghi dove i saperi scientifici e la loro circolazione tengono insieme tante generazioni, sarebbero state ancora attraversate da cambi di rotta strutturali e tutti, studenti, docenti e personale amministrativo sarebbero stati accumunati dall’impossibilità di prevedere, con ragionevole certezza, il loro futuro formativo o lavorativo, anche immediato.
Quando si è aperto il dibattito sui media sulle possibili modifiche del sistema universitario, è poi apparso evidente che esistono punti di vista contrapposti pressoché su tutti i temi fondamentali, a partire proprio dalla riformabilità o meno di questo settore . Idee divergenti, che oggi non appartengono più a distinte e distinguibili concezioni di politica istituzionale. Idee sul concetto di autonomia universitaria e sulle sue forme di finanziamento (trasformazione in Fondazioni), di trasformazione della governance, di reclutamento e valutazione della docenza e della ricerca, di diritto allo studio e valore legale del titolo, prospettate con nettezza, ma troppo spesso a partire dalla condivisione acritica dell’assunto in base al quale “nessuna delle nostre università generaliste si colloca in posizioni nel complesso accettabili (nelle classifiche internazionali)”, contenuto nelle “Linee guida sul governo dell’Università” predisposte del Ministro Gelmini a novembre del 2008.
All’opinione pubblica, ovviamente non solo nazionale, è stata in quel periodo fornita la descrizione di una realtà spesso caratterizzata da privilegi, quando non da illegalità diffuse, dallo spreco o cattivo uso delle risorse (peraltro unanimemente considerate scarse), dall’autoreferenzialità della comunità scientifica (metodo della cooptazione e sue degenerazioni), dall’inadeguatezza dei percorsi formativi (rispetto al numero e alla qualità dei laureati). Per cambiare l’università che è stata così prospettata come luogo immutato e immobile, non solo dalla gran parte del sistema mediatico o dalla maggioranza di governo, non si sarebbe potuto fare altro che rifondarla su basi del tutto nuove.