La classificazione delle Riviste giuridiche, con cui il mondo accademico, ma anche e soprattutto la burocrazia ministeriale, sono chiamati in questi giorni a confrontarsi solleva, come evidenziato da interventi autorevoli anche sul sito AIC, problemi di una certa delicatezza, la cui soluzione non sempre può risultare priva di controindicazioni.
Il principio in sé è difficilmente contestabile, se con esso si intende attribuire qualche valore al pre-giudizio che potrebbe derivare dalla sede di pubblicazione, quando questa sia già stata accreditata dal mondo accademico (e non, pertanto, da una struttura ministeriale) da tempo risalente come luogo di convergenza di studi d’eccellenza.
Per contro, sono assai poco persuaso che un simile accreditamento, se già non c’è, possa crearsi, ora per allora, in base ad indici di qualsiasi natura o, peggio, in ragione di giudizi che difficilmente (specie nel nostro contesto) possono essere scevri da rischiose discrezionalità.
Temo, tuttavia, che in qualche modo saremo costretti a convivere con tale sistema.
Mi chiedo, però, se l’allocazione di uno scritto in una Rivista di “prestigio” possa davvero, specie a fini concorsuali, prendere un determinante sopravvento sul giudizio che nel concorso dovrà esprimersi, senza con ciò ledere l’indipendenza del giudizio stesso. Per converso, mi domando se l’allocazione di uno scritto in una Rivista “corrente” possa correttamente pre-giudicare un candidato, senza che vi sia una motivazione (prevalente) inerente al merito e al metodo del contributo scientifico in questione.
Per non parlare di alcuni effetti perversi che il sistema potrebbe produrre, quali l’inaridimento della provvista di scritti per le Riviste reputate di “bassa tacca” (ohibò) e, in particolare, per le Riviste telematiche, per cui parrebbe che ci si avvii – con notevole coerenza con le esigenze informative attuali e spirito profetico – ad un declassamento illuministicamente aprioristico.